lunedì, maggio 16, 2005

Alfredo Miccio, “Costruzione su suolo personale del coniuge e conferimento in comunione”, in Notariato n. 2/2000 (ed.Ipsoa)

Sentenza, 12-05-1999, n. 04716, sez. 1- PRES Sgroi R- REL Gisotti A- PM Gambardella V (conf.) - BENEDETTINI c. LATTANZI(Cassazione Civile)
FAMIGLIA - MATRIMONIO - RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI - COMUNIONE LEGALE - OGGETTO - IN GENERE - Costruzione realizzata su un suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi - Comunione legale del bene - Esclusione - Scrittura privata non autenticata con la quale si conviene che il coniuge proprietario attribuisca all’altro il 50 per cento della costruzione - Validità - Fondamento.

COD.CIV. ART. 163

COD.CIV. ART. 177

COD.CIV. ART. 934

COD.CIV. ART. 1173

La costruzione realizzata da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno di loro non rientra nella comunione legale dei beni di cui all'art. 159 c.c., con la conseguenza che i coniugi possono legittimamente convenire che il coniuge, titolare esclusivo del manufatto realizzato, anziché adempiere l’obbligazione consistente nel versare all’altro una somma di danaro pari alla metà degli apporti utilizzati nella costruzione, gli trasferisca contrattualmente una quota pari al 50% della proprietà dell'appartamento, sulla base del contestuale riconoscimento "dell'averlo costruito insieme"I.



Il trasferimento di diritti reali immobiliari
II fatto

Due coniugi, in regime di comunione legale dei beni, stipulano nel medesimo giorno due distinti atti: una scrittura privata non autenticata con la quale intendono definire i rapporti patrimoniali esistenti fra loro sino a quel momento e, successivamente, una convenzione matrimoniale con la quale mutano il regime patrimoniale della famiglia, adottando quello della separazione dei beni.

In particolare, nella scrittura privata non autenticata il marito riconosceva alla moglie la proprietà, per una quota di un mezzo, dell'edificio costruito su di un suolo di proprietà esclusiva del primo con lo sforzo economico di entrambe.

Successivamente interviene la separazione personale dei coniugi ed al marito, proprietario del suolo su cui sorge il fabbricato, viene addebitata la responsabilità della separazione stessa. Egli, quindi, adisce l'autorità giudiziaria al fine sentire pronunciata l'invalidità della richiamata scrittura privata non autenticata, sostenendo che il negozio avesse ad oggetto una convenzione matrimoniale modificativa del regime patrimoniale e che tale convenzione fosse nulla, dal momento che l'art. 162 c.c. impone per tali negozi la forma dell'atto pubblico. In secondo luogo, sosteneva ancora il marito, anche qualificando l’atto come una divisione, tale negozio, avendo ad oggetto un bene non in comunione, ma di sua esclusiva proprietà, sarebbe stato nullo per mancanza di causa.

La S.C. rigetta il ricorso del coniuge proprietario del suolo, già soccombente in appello, affermando che, sino al momento in cui fu concluso tale negozio, il fabbricato realizzato apparteneva, per accessione, esclusivamente al coniuge proprietario del suolo, spettando al coniuge non proprietario unicamente un diritto di credito per il contributo prestato. Il coniuge proprietario poteva perciò validamente disporre dell'opera realizzata ed, in particolare, attribuire all'altro coniuge la proprietà di una quota pari ad un mezzo, riconoscendo contestualmente che l'edificio era stato edificato con il contributo di entrambi. Lo strumento giuridico attraverso il quale avviene tale attribuzione è, secondo la massima ufficiale della sentenza, un atto unilaterale a causa atipica, non liberale ma corrispettiva, con effetto costitutivo. Avremo modo di soffermarci in seguito sulla natura giuridica del negozio stipulato dai coniugi, verificando se tale qualificazione, alquanto originale, sia aderente al contenuto della sentenza o se, al contrario, la massima non contenga una erronea sintesi della decisione stessa. Sembra opportuno precisare fin d’ora che, da una attenta lettura del contenuto della sentenza, risulterà chiaro che il negozio stipulato non era un atto unilaterale, bensì un contratto di datio in solutum.

Comunione legale tra coniugi e acquisto per accessione
La decisione in argomento conferma il consolidato orientamento della Suprema Corte[1] sulla questione inerente alla costruzione realizzata durante il matrimonio sul suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni. Secondo tale orientamento, il fabbricato appartiene esclusivamente al coniuge proprietario del suolo, poiché le norme in tema di comunione legale fra coniugi non hanno carattere derogatorio rispetto al principio generale dell'accessione. In particolare, l'art. 177, lett. a) c.c., che assoggetta al regime della comunione legale dei beni gli acquisti compiuti dai coniugi durante il matrimonio, non può prevalere rispetto alla disciplina dettata dall’art. 934 c.c.[2], ai sensi del quale il proprietario del suolo acquista la proprietà delle opere costruite sul suo fondo ipso iure al momento dell'incorporazione, senza necessita` di una specifica manifestazione di volontà[3].

La seconda parte dell'art. 934 c.c. stabilisce che l'operatività di tale principio può essere derogata solo da un titolo, corrispondente e conforme ad una manifestazione di volontà del proprietario del suolo, o da una specifica disposizione di legge che attribuisca in tutto o in parte la proprietà del fabbricato ad un soggetto distinto dal proprietario del suolo su cui è stato edificato.

La S.C. ha osservato al riguardo che la locuzione "acquisti compiuti", contenuta nell'art. 177 lett. a) c.c., implica il pregresso espletamento di un'attività negoziale da parte del coniuge, ossia un acquisto a titolo derivativo e non il mero giovarsi di effetti acquisitivi collegati dalla legge al verificarsi di determinati fatti[4].

Per la Suprema Corte l'art. 177 c.c. è, quindi, una norma avente carattere generale, priva di un contenuto precettivo direttamente contrastante con l'acquisto ex art. 934 c.c.. Non viene cioè valutata come una norma che deroghi espressamente e specificatamente all'operatività del principio dell'accessione e tanto meno come una norma idonea a derogarlo implicitamente[5].

La Corte ha inoltre analizzato il rapporto esistente fra gli artt. 934 e 952 da una parte e l'art. 177 lett. a) c.c. dall'altra. In proposito ha ritenuto che l'assoggettamento del fabbricato al regime della comunione dovrebbe necessariamente avvenire prevedendo la costituzione di un diritto di superficie a favore dei coniugi che, però, non trarrebbe origine né dalla legge, poiché l'art. 177 lett. a) c.c. non viene interpretato dalla S.C. quale norma in grado di derogare al principio generale posto dall'art. 934 c.c., né tanto meno da un valido titolo[6], dal momento che non è ravvisabile alcun atto dispositivo del proprietario del suolo, come invece prevede l'art. 952 c.c. in tema di superficie.

Per altro, la dottrina non ha mancato di osservare che, se il fabbricato realizzato in costanza di matrimonio entrasse a far parte dei beni comuni, attrarrebbe alla comunione, per il diritto di superficie, anche il suolo sul quale sorge che, al contrario, dovrebbe restare totalmente estraneo a tale regime, in quanto bene di proprietà esclusiva di uno dei coniugi. L’estensione della comunione anche alle costruzioni edificate sul suolo personale di uno dei coniugi finirebbe, in definitiva, per privare il coniuge proprietario, non solo di una quota pari a metà del fabbricato realizzato, ma anche, nella stessa misura, del diritto di superficie e, comunque, di parte della potenzialità edificatoria del suolo, determinando un’ingiustificata menomazione dei diritti da lui vantati sul medesimo[7]. Detta estensione, in conclusione, realizzerebbe una forma di (inammissibile) esproprio[8] a favore della comunione di un bene, il suolo del coniuge, pur rientrante, invece, fra quelli esclusi dalla comunione ai sensi di legge, ex art. 179 c.c..

L'accessione viene dunque interpretata dalla S.C. come un principio generale dell'ordinamento volto ad assicurare non solo la certezza del diritto, attraverso la forza espansiva connessa al diritto di proprietà, ma anche la sicurezza nella circolazione dei beni immobili, permettendo di individuare con precisione il soggetto legittimato a trasferire i relativi diritti[9].

Pur non facendo sorgere alcun diritto reale, gli apporti resi dal coniuge non proprietario alla realizzazione dell'edificio, che nella fattispecie in esame non sono in discussione, si sostanziano in un diritto di credito nei confronti del coniuge proprietario del suolo, il cui ammontare può variare a seconda che sia stato utilizzato denaro della comunione o, invece, denaro dell’altro coniuge. Così, se per erigere l'edificio e` stato utilizzato denaro della comunione, il coniuge proprietario dell'area, e della costruzione, e` tenuto a restituire le somme prelevate dal patrimonio comune, ai sensi dell'art. 192[10] primo comma c.c.; se, al contrario, e` stato utilizzato denaro di proprietà dell'altro coniuge, questi ha titolo per ripetere le somme ai sensi dell'art. 2033[11] c.c..

Atto unilaterale traslativo a causa atipica-corrispettiva o datio in solutum?
E' giunto il momento di analizzare la natura giuridica del negozio intervenuto tra i coniugi, verificando, in particolare, se sia ammissibile una qualificazione giuridica così ardita ed innovativa, quale si potrebbe rilevare dalla lettura della massima ufficiale[12]: "atto unilaterale a causa atipica, non liberale ma corrispettiva, dall'effetto evidentemente costitutivo, risultante da scrittura privata non autenticata", oppure se essa vada ricondotta entro categorie giuridiche più tradizionali.

Secondo la massima della Suprema Corte, dunque, il marito, proprietario del suolo su cui e' stato edificato l'immobile con l'uguale apporto di entrambi i coniugi, anziché versare una somma di danaro pari alla metà dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione, attribuirebbe unilateralmente alla moglie una quota pari ad un mezzo della proprietà del fabbricato, sulla base del contestuale riconoscimento "di averlo costruito insieme".

Occorre segnalare, tuttavia, che non ricorre anche nel testo della decisione che si commenta la qualificazione presente nella massima. In nessun passaggio del ragionamento seguito dalla S.C. emerge tale innovativa ricostruzione giuridica: il negozio non viene ivi considerato quale "atto unilaterale", ma anzi, espressamente come "contratto".

Un altro punto a favore della configurazione del negozio in termini di contratto discende dal fatto che la sentenza si riferisce ai coniugi, definendoli costantemente quali parti del negozio in questione, dei quali richiama altresì il comune intento, che, nel pensiero della S.C., era quello di "raggiungere un assetto economico globale ed inscindibile".

Anche la parte della decisione ove viene riassunto lo svolgimento del processo di appello, non lascia spazio a dubbi in ordine alla natura contrattuale del negozio, atteso il chiaro riferimento al consenso prestato dai coniugi, quali parti di un contratto: "Osservava la corte di merito, in particolare, in ordine alla censura relativa all'accertamento della comproprietà della casa, che con la scrittura privata del 18/3/81 i coniugi - ... - avevano convenuto che il Benedettini riconosce(va) alla moglie i diritti di proprietà su metà dell'appartamento".

La sentenza, pur non dilungandosi sulla tipologia contrattuale del negozio, del quale non contesta la natura di contratto “a causa atipica” e “corrispettiva” prospettata dalla Corte di appello, sembra fornire qualche spunto per una sua esatta qualificazione, sancendo che "... i rapporti patrimoniali inerenti al bene, …potevano avere, secondo le rappresentazioni delle parti, anche un contenuto obbligatorio (diritti di credito spettanti alla Lattanzi per il contributo prestato)” e che l’atto tra loro stipulato realizzava “un’attribuzione patrimoniale” volta a “definire i rapporti patrimoniali inerenti al bene”. Appare dunque che il negozio al vaglio integri un'ipotesi di contratto di datio in solutum ex art. 1197, con il quale il coniuge debitore attribuisce all’altro la proprietà dell’edificio, anziché adempiere all'obbligazione in danaro gravante a suo carico. Proprio questa sembra la ricostruzione corretta della fattispecie: un contratto a titolo oneroso, ex art. 1197 secondo comma c.c. e dunque tipico, con il quale un coniuge trasferisce all’altro una quota pari alla metà della piena proprietà dell'appartamento, ad estinzione del credito vantato da quest’ultimo e corrispondente alla metà dell'intera spesa occorsa per la costruzione realizzata con il pari apporto economico di entrambi, ovvero alla reintegrazione della comunione legale, ai sensi dell'art. 192 primo comma, qualora l'opera sia stata edificata con danaro della comunione stessa[13].

Questo contratto, bilaterale e corrispettivo[14], è ben lontano dalla qualificazione contenuta nella massima ufficiale, con buona pace di chi vede nel consenso traslativo e nella intangibilità dei patrimoni, due principi indefettibili del nostro ordinamento[15].

Tale conclusione, invece, provocherà il disappunto di chi attende con fiducia che si affermino le istanze provenienti dal mondo dei traffici, che prediligono modelli di circolazione della ricchezza sempre più agili e snelli rispetto allo schema contrattuale. I riferimenti testuali contenuti nella decisione sono, d’altro canto, espliciti nell’affermare la natura contrattuale del negozio ed ampiamente condivisibili.

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Quanto agli effetti del negozio al vaglio, potrebbe sorgere il dubbio che la quota oggetto del trasferimento cada in comunione, disattendendo così lo scopo perseguito dai coniugi, ove il relativo atto venga concluso in costanza di tale regime patrimoniale[16].

In senso contrario, sembra sostenibile che, in ogni fattispecie come quella del caso in esame, il diritto trasferito con la datio in solutum mantenga la qualifica di diritto personale del coniuge creditore ai sensi dell’art. 179 lett. f) c.c., in quanto, così come nella permuta[17], il trasferimento viene realizzato con lo scambio di un diritto personale di quest’ultimo, quale è quello di vedere reintegrata la comunione legale ovvero di ottenere la restituzione del denaro personale utilizzato nella costruzione.

Anche in tale fattispecie può inoltre reputarsi superflua la dichiarazione prescritta dal secondo comma dell’art. 179 c.c., in analogia con quanto, secondo l’opinione seguita anche dalla giurisprudenza[18], si afferma in riferimento alla permuta, per la quale si è negato l’applicazione di tale norma in considerazione della obiettiva certezza della natura personale dell’acquisto.

Nel caso di specie il trasferimento della quota di un mezzo del fabbricato determina il sorgere di una comunione ordinaria trai coniugi, tuttavia, in generale non è escluso che i medesimi, se non avessero proceduto alla contestuale separazione dei beni, si potessero accordare nel senso di assoggettare l'intero bene alla comunione legale.

Deve inoltre segnalarsi che, se è vero che i coniugi concorrono in pari misura alla costruzione dell'edificio, è pur sempre uno solo di essi che, quale proprietario del suolo, rende lo stesso disponibile per la costruzione. Nella fattispecie in esame, tuttavia, come si evince dal primo comma dell'art. 1197 c.c., la prestazione in luogo dell'adempimento può avere anche un valore superiore alla prestazione originaria. In tal caso sarà dunque solo questione di accertare se nella fattispecie ricorra anche il profilo di una donazione indiretta.

Modalità di perfezionamento del contratto di datio in solutum avente ad oggetto beni immobili
Il caso in esame richiama alla mente, per affinità di materia, quello deciso dalla S.C. con la sentenza del 21 dicembre 1987 n. 9500[19], nella quale si è ritenuto che anche un negozio, avente ad oggetto il trasferimento di un bene immobile, possa ricondursi alla categoria del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente. Nella fattispecie si trattava dell’adempimento di un obbligo giuridico di mantenimento, derivante da un accordo in sede di separazione coniugale consensuale, con il quale già in quella sede una delle parti si impegnava a trasferire un determinato immobile. Con tale pronuncia la S.C., ampliando l’ambito di applicabilità dell’art. 1333 c.c., ha sostenuto che la sola proposta del coniuge, che si adoperava per la realizzazione del trasferimento convenuto, fosse sufficiente a perfezionare il contratto ove non seguita dal rifiuto del suo destinatario.

Questa decisione offre lo spunto per indagare in ordine alla possibilità che anche il contratto di datio in solutum, del tipo esaminato nella sentenza che qui si annota, possa perfezionarsi per mezzo del meccanismo della sola proposta non seguita dal rifiuto del suo destinatario.

Sembra opportuno rammentare che, in generale, l'applicabilità dell'art. 1333 c.c. ai negozi traslativi di diritti reali immobiliari risulta assai controversa[20]. L’opinione contraria si fonda su considerazioni di carattere sia letterale, che sistematico. Si ritiene così che la lettera della legge limiti l’operatività del procedimento ex art. 1333 c.c. ai soli contratti con effetti obbligatori. Si sottolinea inoltre che, in quanto liberalità, un atto traslativo non oneroso, dovrebbe rivestire la forma della donazione[21], cosicché non vi sarebbe spazio per il procedimento semplificato al vaglio.

A ben vedere, entrambe le obiezioni non paiono in via di principio insuperabili, ove si rammenti che la lettera della legge può subire temperamenti, in considerazione della ratio che la norma esprime, e si ipotizzino atti traslativi non onerosi non riconducibili alla donazione.

Si sostiene, in fine, che la proprietà di un immobile, in ragione degli oneri e dei possibili pregiudizi che comporta, richiede, in osservanza al principio di intangibilità della sfera giuridica altrui, non solo la manifestazione di volontà del soggetto che compie il trasferimento, ma anche la manifestazione di volontà del soggetto che lo riceve, non potendosi qualificare il silenzio[22] richiesto dall’art. 1333 c.c. quale manifestazione tacita di accettazione[23].

Anche l’opinione testé riportata non risulta, però, esente da critiche, in quanto si rilevi che il negozio di trasferimento del diritto di proprietà, a titolo non oneroso, non è suscettibile di produrre in via immediata conseguenze pregiudizievoli per il beneficiario e che queste, semmai, sono riconnesse al negozio unicamente in via indiretta, inerendo, piuttosto, direttamente al diritto di proprietà trasferito[24].

L’anzidetta pronuncia, qualificando l’atto traslativo come un negozio a carattere esecutivo, in quanto atto estintivo di un precedente credito, afferma dunque che questo possa concludersi per mezzo del procedimento ex art. 1333 c.c., reputando sufficiente che, trattandosi di un trasferimento immobiliare, la forma scritta, ex art. 1350 c.c., sia rispettata nella sola proposta.

Come si è appena accennato, il caso analizzato dalla Corte nel 1987 prendeva in esame una ipotesi di pagamento traslativo[25]. Tale negozio è caratterizzato dalla sua corrispondenza ad un precedente programma negoziale del quale si configura come una mera esecuzione[26]. Trattando del negozio in questione, la dottrina parla di causalità esterna, ma anche di neutralità causale[27], volendo con questi termini, per un verso, evidenziare la sudditanza ontologica del negozio esecutivo rispetto al negozio principale causalmente orientato, con la conseguenza che il venir meno del secondo investe in pieno anche il primo, per un altro, far risaltare l’inesistenza nella causa solvendi di una connotazione diversa da quella solutoria[28], dal momento che il negozio esecutivo non può che conformarsi a quanto già stabilito dal negozio principale.

Dal momento che il pagamento traslativo deve corrispondere ad un programma negoziale convenuto tra le parti, tale negozio non comporta alcun sacrificio a carico di chi lo riceve[29]. Il pagamento traslativo, in altre parole, pur non potendo qualificarsi come atto gratuito, data la sua natura di atto solutorio presenta, tuttavia, forti analogie, sotto il profilo che qui interessa, con un contratto a titolo gratuito.

E’, dunque, proprio in considerazione della circostanza che esso non determina alcuno svantaggio a carico del suo destinatario, che anch’esso deve ritenersi suscettibile di perfezionamento per mezzo dell’iter disciplinato dall’art. 1333, il quale, riferendosi letteralmente ai contratti dai quali “derivino obbligazioni solo per il proponente”, deve giustamente interpretarsi come rivolto a tutti i contratti nei quali il destinatario della proposta non è tenuto a sopportare sacrifici in conseguenza del perfezionando contratto[30].

Il procedimento di perfezionamento unilaterale del negozio, illustrato poc’anzi, non sarebbe stato viceversa applicabile al caso deciso dalla sentenza che qui si annota[31]: il contratto di datio in solutum, infatti, pur avendo un effetto solutorio, si caratterizza, come già evidenziato, per la intrinseca corrispettività[32]; la circostanza che, nella datio in solutum, il debito si estingua con l’esecuzione di una prestazione diversa da quella originariamente programmata, comporta che la fattispecie non possa ritenersi soltanto vantaggiosa per il creditore, poiché l’accordo, determinando una rimeditazione dell’originario assetto di interessi fra le parti, importa comunque a carico del creditore “la perdita” della prestazione originaria e dunque un suo sacrificio suscettibile di valutazione economica.

La stessa Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi in argomento[33], sancendo in modo chiaro ed univoco l’incompatibilità fra un atto traslativo che si richiami alla disciplina dell’art. 1333 c.c. ed il contratto con il quale si realizza una datio in solutum ex art. 1197 c.c.. La S.C. ha osservato che nell'art. 1333 c.c. la formazione del contratto avviene per mancato rifiuto da parte del destinatario della proposta, unicamente perché per lo stesso possono derivare soltanto vantaggi dal contratto medesimo. Tale disposizione, sempre secondo il pensiero della Suprema Corte, deve essere intesa nel senso che, nell’ambito del contratto, non solo gli effetti obbligatori, ma anche gli eventuali effetti dispositivi o estintivi devono essere ad esclusivo carico del proponente. In conseguenza, conclude la S.C., lo schema indicato dall’art. 1333 c.c. non e' applicabile ad un’ipotesi di datio in solutum, poiché questa, pur non comportando alcun effetto obbligatorio a carico del creditore - destinatario della proposta - importa, tuttavia, per lo stesso, l'effetto estintivo del credito di cui e' titolare, non già come conseguenza del suo adempimento, bensì come risultato di una prestazione di contenuto o di tipo diverso, qualificando in tal modo il negozio come un contratto con effetti a carico di entrambi i contraenti.

Può allora essere utile soffermarsi rapidamente sulla configurabilità di un contratto, avente ad oggetto una prestazione in luogo dell’adempimento, nel quale le parti abbiano espressamente differito l’esecuzione della diversa prestazione, nel caso di specie dell’atto traslativo, ad un momento successivo. Ci si riferisce all'ipotesi di un accordo di datio in solutum a cui faccia seguito un pagamento traslativo.

La questione riveste carattere prevalentemente teorico - ricostruttivo, in quanto, dalla lettura della sentenza, non emerge affatto che il trasferimento fosse già previsto in un precedente accordo tra i coniugi, prodromico all’atto traslativo, e tanto meno che tale accordo avesse il necessario requisito della forma scritta e, tuttavia, merita comunque un cenno in quanto è ancora una volta in discussione l’applicabilità dell’art. 1333 c.c. ad un atto traslativo, potenzialmente idoneo ad inserirsi anch’esso in una operazione di riassetto patrimoniale fra i coniugi.

L’accordo ipotizzato, secondo l’opinione prevalente[34], sebbene non incontrastata, non può qualificarsi come una ipotesi di datio in solutum. Il contratto in parola, infatti, consiste in una estinzione del debito che, per espressa disposizione di legge, avviene sempre con l’esecuzione della diversa prestazione la quale, pertanto, deve essere eseguita nel momento stesso in cui il negozio è concluso.

La dottrina sottolinea, sotto questo profilo, come tale fattispecie si caratterizzi per una sorta di realità impropria[35], che non si concretizza nella consegna - traditio di un bene, ma nella necessità che le reciproche attribuzioni patrimoniali siano contestuali, permettendo l’immediato effetto estintivo della obbligazione. In caso contrario, se dunque si scindesse l’accordo modificativo dell’oggetto della obbligazione ed il conseguente adempimento, non si sarebbe più in presenza di una ipotesi di datio in solutum, ma di fronte ad una novazione oggettiva[36], nella quale, grazie al necessario animus novandi, l’originaria obbligazione viene sostituita da una nuova con un oggetto o un titolo diversi, oppure, in assenza dell’animus novandi, dinanzi ad un accordo solutorio[37] non riconducibile comunque all’art. 1197 c.c..

Alla stregua delle considerazioni svolte, quale che sia la natura dell’accordo anteriore al successivo atto di adempimento traslativo, tale atto, in quanto meramente esecutivo del programma negoziale posto in essere dalle parti, sembra senz’altro perfezionabile secondo il meccanismo semplificato sancito dall’art. 1333 c.c. Il meccanismo è questa volta percorribile, al contrario di quanto affermato in precedenza, proprio in virtù della presenza, nell’ipotesi prospettata, di un accordo, precedentemente intercorso fra le parti, da cui l’atto traslativo trae origine e causa.

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Ritornando allo specifico tema del rapporto fra il regime di comunione legale e l’acquisto del fabbricato per accessione in capo ad uno solo dei coniugi, è bene ricordare che la dottrina non ha mancato di prospettare una soluzione attraverso la quale attribuire il fabbricato ad entrambi i coniugi con un atto unilaterale, senza, nel contempo, intaccare il principio acquisitivo dell'accessione. L'atto unilaterale è stato configurato come un atto abdicativo[38], con il quale il coniuge, proprietario del suolo su cui è stato edificato l'immobile, rinunzia all'acquisto per accessione, consentendo così che il bene sia assoggettato al regime della comunione legale.

Tale procedimento, che implica l’esistenza di un rapporto di residualità fra l'art. 177 lett. a) e l'art. 934 c.c., non sembra però realizzabile, in quanto lo schema operativo indicato dall’art. 177 lett. a) c.c. impone, perché il bene entri in comunione, che il coniuge “compia” l’acquisto, mentre, se il coniuge rinuncia al diritto di proprietà, egli non acquista alcunché e il bene non può in nessun caso essere assoggettato al regime di comunione ex art. 177 lett. a) c.c..

In altri termini, la rinuncia all’acquisto per accessione, da parte del coniuge proprietario del suolo, determina la sola dismissione del diritto del coniuge rinunciante, senza che tale effetto possa comportare l’acquisizione del bene in capo ai coniugi in regime di comunione legale.

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Una volta chiarito che l’atto, esaminato dalla S.C. con la sentenza in commento, è un contratto di datio in solutum che richiede, per il suo perfezionamento, il consenso di entrambe le parti, è il caso di fare qualche accenno ai requisiti formali e strutturali che lo caratterizzano.

Come già detto, tale negozio, avendo ad oggetto diritti immobiliari, doveva rivestire la forma scritta. Deve evidenziarsi, inoltre, che il trasferimento trova giustificazione nel precedente debito, che ne costituisce il presupposto e ne integra la causa. In ossequio al principio di diritto positivo della causalità degli atti negoziali il debito deve, quindi, risultare dal negozio medesimo (expressio causae).

Altri elementi necessari alla validità dell'atto sono, da una parte, la volontà del coniuge debitore di effettuare il trasferimento, di una quota pari ad un mezzo della piena proprietà, al fine di estinguere l'obbligazione originaria, consistente nella reintegrazione della comunione legale ovvero nel pagamento della somma spettante al coniuge non proprietario, dall'altra, la volontà del coniuge creditore di accettare a tale titolo la diversa prestazione.

In fine, pur essendo di ovvio rilievo, può essere interessante, per i rilevanti riflessi pratici che ne derivano, sottolineare che il contratto di datio in solutum di cui si discute, in quanto avente ad oggetto diritti reali immobiliari, nella fattispecie il trasferimento di una quota di un mezzo della proprietà di un fabbricato, deve contenere le menzioni di cui alla legge n. 47 del 28 febbraio 1985 e n. 165 del 26 giugno 1990.

Quanto alle menzioni di carattere fiscale, l’attestazione dell’alienante, di avere o meno inserito il reddito fondiario dell’immobile nella propria dichiarazione dei redditi, dovendo assumere, a pena di nullità, la veste di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, postula necessariamente l’intervento del pubblico ufficiale, cosicché risulta esclusa la possibilità di concludere il contratto per scrittura privata non autenticata[39].

La circostanza che, nel caso deciso dalla sentenza in commento, il contratto traslativo fosse rappresentato da una scrittura privata non autenticata e che ciò non sia stato evidenziato dalla Corte, deriva dal fatto che la scrittura risaliva al 18 marzo del 1981 e, dunque, era stata sottoscritta in data anteriore all’entrata in vigore delle citate leggi.













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I Così invece la massima ufficiale: La costruzione realizzata da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno di essi non rientra nella comunione legale dei beni di cui all'art. 159 c.c., con la conseguenza che il coniuge titolare esclusivo del manufatto così realizzato può, del tutto legittimamente, attribuire all'altro coniuge, con atto unilaterale risultante da scrittura privata non autenticata (atto a causa atipica, non liberale ma corrispettiva, dall'effetto evidentemente costitutivo), il diritto di proprietà sul 50% dell'appartamento, sulla base del contestuale riconoscimento "dell'averlo costruito insieme".

[1] V. Cass. 22 aprile 1998, n.4076, in Cass. Ced; Cass. 27 gennaio 1996, n. 651, in questa Rivista, 1996, 427, con commento di Cenni ed in Vita not., 1996, 742, con commento di Coco; Cass. 25 novembre 1993, n. 11663, in Giust. civ., 1994, I, 676; Cass. 16 febbraio 1993, n. 1921, in Riv. not. 1993, 6, 1226; Cass. 14 marzo 1992, n. 3141, in Riv. not., 1992, 848, con commento di Serino ed in Giust. civ., 1992, I, 1734, con commento di Finocchiaro; Cass. 11 giugno 1991, n. 6622, in Riv. not., 1991, 1001, con motivazione ed in Giust. civ., 1992, I, 763, con commento di Di Mauro.

[2] La posizione della S.C. è stata inizialmente accolta con scetticismo dalla dottrina; in senso critico si vedano ad esempio: Bottazzi, Acquisti per accessione e comunione legale fra coniugi, in Riv. not., 1993, II, 793; Buta, Acquisto per accessione e comunione legale tra coniugi, in Giust. civ., 1994, II, 625. Per una esauriente analisi delle posizioni assunte in dottrina, v. Briganti, Il problema della proprietà dell'edificio realizzato su suolo personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale, in questa Rivista, 1995, 69 ss.

[3] Non è questa la sede per soffermarsi sulle modalità operative dell'accessione, per un primo approfondimento, si veda Bianca, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, 348 ss.

[4] V. in particolare, Cass.14 marzo 1992, n. 3141, op. cit., 1734, con commento di Finocchiaro, il quale critica tale assunto, osservando che è arbitrario ritenere che solo gli acquisti a titolo derivativo rientrino nella comunione.

[5] V. in particolare, Cass. 11 giugno 1991, n. 6622, op. cit., 1001.

[6] V. in particolare, Cass. 16 febbraio 1993, n. 1921, in Giust. civ., 1995, I, 237, con commento di D’Armi.

[7] Il diritto di proprietà sul suolo non può essere snaturato dall'assoggettamento della nuova opera al regime della comunione, ex art. 177 lett. a) c.c., poiché in tal modo verrebbe lesa una delle principali facoltà che qualificano la proprietà ex art. 832 c.c.: lo ius aedificandi (D'Armi, op. cit., 243).

[8] v. Corsi, Accessione e comunione legale, in Riv. not., 1992, II, 1391.

[9] In dottrina si evidenzia che, se non fosse l'accessione a prevalere, ma, al contrario, l'assoggettamento del bene al regime della comunione ex art. 177 lett. a), la proprietà, e quindi la legittimazione ad alienare il bene, si dovrebbero desumere da una mera circostanza di fatto, quale il momento della costruzione dell'immobile che non è sempre di facile individuazione, come nel caso di un fabbricato ultimato a cavallo del matrimonio, v., ampiamente, Corsi, op. cit., 1398; Di Transo, Comunione legale tra coniugi e acquisto per accessione, in Vita not., 1978, 1269.

[10] Nel caso in esame, per altro, il coniuge creditore non potrebbe, in caso di inadempimento del coniuge debitore, aggredire l’immobile in forza del quinto comma dell’art. 192, laddove, si ripete, il bene acquistato per accessione è un bene personale.

[11] V. in particolare, Cass. 14 marzo 1992, n. 3141, op. cit., 1731.

[12] Si veda la nota “I” in apertura.

[13] Dalla sentenza in commento non si evince se, per la costruzione, sia stato utilizzato denaro personale dell’altro coniuge (per la metà della spesa complessiva) o danaro della comunione. Nel caso di specie sembra verosimile che l’edificio sia stato realizzato con danaro appartenente alla comunione, che, di regola, dovrebbe essere reintegrato, a norma dell’art. 192 quarto comma c.c. nel momento dello scioglimento della comunione. Vale precisare che l’anticipata esecuzione (della prestazione in luogo dell’adempimento), ad un momento anteriore allo scioglimento(v., tuttavia, infra nt. 16), è perfettamente legittima anche senza l’autorizzazione del giudice, prevista dalla seconda parte della norma citata, poiché tale intervento giurisdizionale è necessario solo in caso di disaccordo fra i coniugi, potendo gli stessi, di comune accordo, regolare come meglio credono i loro rapporti patrimoniali. V. Mastropaolo - Pitter, art. 192 Rimborsi e restituzioni, in Comm. al dir. it. della famiglia, diretto da Cian - Oppo - Trabucchi, Padova, 1992, 356 ss.

[14] Il contratto in parola è a titolo oneroso e persegue un fine tipico attraverso reciproche attribuzioni patrimoniali, una delle quali consiste nella liberazione del creditore dalla originaria prestazione. In argomento v. Marchio, Dazione in pagamento, in Enc. Giur., X, Roma , 1988, 1 ss.; Rodotà, Dazione in pagamento (diritto civile), in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 734 e ss.; Zaccaria, La prestazione in luogo dell'adempimento tra novazione e negozio estintivo del rapporto, Milano, 1987, 100.

[15] V., se pur con toni e impostazioni differenti, Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, 264 ss.; Carresi, Il contratto, in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da Cicu - Messineo, Milano, 1987, II, 700 ss.; Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, 122 ss.; Sacco, Il contratto, in Tratt. di dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1975, 34 ss., 626; Scognamiglio, Contratti in generale, Milano, 1975, 167.

[16] Il problema non si pone ogni qual volta i coniugi procedano prima alla separazione e poi all’atto traslativo, avente ad oggetto il bene personale. Nel caso in esame in cui, al contrario, l’atto di trasferimento precede immediatamente l’atto con cui le parti mutano in separazione il regime patrimoniale della famiglia, si può ipotizzare che il trasferimento sia, per implicito, sospensivamente condizionato alla stipula della convenzione matrimoniale di separazione.

[17] In dottrina si rileva che lo scambio di un bene personale, di cui all’art. 179 lett. f) c.c., deve “intendersi con particolare ampiezza, in modo da ricomprendervi non soltanto i cespiti acquisiti a mezzo del tipico contratto di permuta, ma anche ad esempio... i cespiti ricevuti per una datio in solutum ...”, v. Radice, La comunione legale tra coniugi: i beni personali, in Il diritto di famiglia, tratt. diretto da Bonilini - Cattaneo, Torino, 1997, 149.

[18] V. Cass. 8 febbraio 1993, n. 1556, in Giust. Civ., con nota critica di Finocchiaro.

[19] Cass. 21 dicembre 1987, n. 9500, in Giust. civ., 1988, I, 1237, con commento di Costanza ed in Corriere giur., 1988, 144, con commento di Mariconda.

[20] Branca, Promesse unilaterali, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1959, 351; Carresi, Il contratto con obbligazioni del solo proponente, in Riv. dir. civ., 1974, I, 393 ss.

[21] Il contratto di donazione si caratterizza oltre che per la presenza dell’animus donandi, per la necessaria forma pubblica non solo della proposta, ma anche dell’accettazione ex art. 782 c.c.. Sull'eccezione rappresentata dalla donazione obnuziale ex art. 785, v. Sacco, op. cit., 43; Carnevali, Le donazioni, in Tratt. di dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, 1982, 436; Torrente, La donazione, in Tratt. di dir. civ. e comm., diretto da Cicu - Messineo, Milano, 1956, 239 ss.

[22] In dottrina si sottolinea, sotto il profilo consensualistico, la neutralità del silenzio non circostanziato, v. Bianca, op. cit., Il contratto, 214.

[23] Anche quella parte della dottrina che, nell’ambito della teoria del contratto, mantiene un atteggiamento aspramente critico nei confronti del dogma dell'accordo, non tralascia di sottolineare che la bilateralità appare essenziale per la produzione di effetti reali. V. Sacco, op. cit., 15 ss.

[24] Esistono profonde simmetrie fra il procedimento contrattuale disposto dall’art. 1333 c.c. e quello stabilito dall’art. 1411 c.c., in quanto in entrambe i casi gli effetti del negozio si producono senza che la volontà del beneficiario sia espressa. In relazione all’ambito di applicazione, la dottrina, pur non essendovi accordo unanime, ritiene che il contratto a favore di terzo sia estensibile al trasferimento di diritti reali, v. Sacco, Il contratto, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco - De Nova, Torino, 1993, 213.

[25] Esempi tipici sono: il negozio con il quale il mandatario senza rappresentanza trasferisce al mandante il bene acquistato, a norma del secondo comma dell’art. 1706 c.c.; il legato di cosa di terzo ex art. 651, primo comma c.c.. In argomento v. Giorgianni, Natura del pagamento e vizi di volontà del solvens, in Foro Pad, 1962, I, 719; Moscati, Pagamento dell'indebito, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1981, 200.

[26] Nella fattispecie esaminata dalla sentenza in parola il programma negoziale è contenuto nel verbale di separazione consensuale.

[27] V. Camardi, Vendita e contratti traslativi, Milano, 1999, 105 ss.; Di Majo, Adempimento dell'obbligazione, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1998, 18.

[28] Un negozio a causa solvendi può intervenire anche in attuazione di un precedente negozio di liberalità, in questo senso, tra gli altri, v. Di Majo, op. cit., 4.

[29] Non può sfuggire che il pagamento traslativo, per essere tale ed estinguere così l’originaria obbligazione, dovrebbe essere perfettamente aderente la programma negoziale precedentemente stabilito dalle parti, se così non fosse, non vi sarebbe adempimento e quindi neppure estinzione della obbligazione.

[30] V. Tilocca, Onerosità e gratuità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 53.

[31] V. Bianca, op. cit., Il Contratto, 263.

[32] Si veda quanto riportato in nt. 14.

[33] V. Cass. 30 giugno 1987, n. 5748, in Giust. civ., 1988, I, 1023; Chessa, I limiti di applicabilità del procedimento di formazione del contratto ex art. 1333 c.c., in Riv. giur. sarda, 1990, 325; Tului, Datio in solutum immobiliare e tecnica procedimentale di cui all'art. 1333 c.c., in Riv. giur. sarda, 1988, 1.

[34] V. Rodotà, op. cit., 737; Zaccaria, nel commento all’art. 1197, in Comm. breve al cod. civ., a cura di Cian - Trabucchi, Padova, 1997.

[35] V. Rodotà, op. cit., 736;

[36] V. Rodotà, op. cit., 737; contra, per la configurabilità di un semplice accordo di datio in solutum, che, però, non è immediatamente estintivo della originaria obbligazione, si veda Bianca, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1998, 432 ss.

[37] La dottrina qualifica tale accordo come un patto che legittima il debitore a compiere in futuro una prestazione diversa da quella originariamente convenuta, v. Perlingieri, Dei modi di estinzione diversi dall’adempimento, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1975, 92 ss.

[38] V. Di Mauro, op. cit., 765. Sulla configurabilità di un atto di rinunzia avente ad oggetto la proprietà immobiliare, v. Bianca, op. cit.,, La proprietà, 406.

[39] Come è noto, per le menzioni urbanistiche di cui alla legge n.47/1985, invece, la dichiarazione, che garantisce la regolarità dell’edificazione del fabbricato, deve rivestire la forma di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio solo nel caso in cui l’alienante, anziché citare le licenze edilizie in virtù del quale è stato edificato l’immobile, attesti che il fabbricato trasferito è stato edificato anteriormente al primo settembre 1967.
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